Che eri incinta lo sapevamo da un po’. Non parlavi di altro da quando hai scoperto di esserlo: l’asilo nido da prenotare, il dilemma dei pannolini lavabili, l’ossessiva ricerca di un nome innovativo, le descrizioni dettagliate delle tue nausee mattutine.
A quello eravamo, in un certo senso, preparati. Ci bastava togliere l’audio alla tua figura blaterante e pensare ad altro, oppure guardarci intorno alla ricerca di un appiglio conversazionale che ci riportasse al mondo degli adulti.
Quello che non ci aspettavamo però è la mail che tutti, ma proprio tutti i contatti della tua rubrica, incluse le persone che hai conosciuto in discoteca dieci anni fa, i compagni del liceo e forse anche qualche professore dell’università, ci siamo visti recapitare in una bella giornata d’estate.
E noi che ti pensavamo ricoverata in ospedale, a goderti le prime ore di vita di quella che, te lo concedo, è sicuramente una delle tue più grandi riuscite. E invece no. Appena rientrata in casa, ancora gonfia e dolorante, con addosso l’odore di ospedale e il nastro adesivo che fino a poche ore prima teneva incollato l’ago della flebo al tuo braccio ancora incrostato sulla pelle, ti sei catapultata sul computer.
Hai scorso con impazienza i messaggi degli amici più cari, sinceramente curiosi di sapere tutto sul travaglio. Ma il loro affetto non ti è bastato, e ti sei messa all’opera. Prima hai compilato una dettagliata descrizione del parto e delle ore che lo hanno preceduto e seguito, poi hai attaccato il cavetto della macchina fotografica al tuo portatile, lanciato uno sguardo al pupo sdraiato per la prima volta nel suo candido lettino, magari hai sorriso, e ti sei messa a caricare le foto. Che hai poi prontamente condiviso con tutti quanti attraverso un pratico link. Hai terminato la tua missiva con orgoglio spropositato e hai finalmente cliccato su invia.
E ora mi ritrovo qui a guardarti mentre spingi, arrossata e spettinata, mentre stringi tra le mani un esserino raggrinzito con gli occhi appiccicati e la pelle paonazza per lo sforzo. Con il cordone ombelicale ancora attaccato. Un realismo scenico degno dei migliori film splatter. Un tripudio di sangue e merda che neanche Tarantino.
Un nuovo terrore mi assale e non oso, anche se vorrei, fare la fatidica ricerca per verificare se quei 3 kili e mezzo per 56 cm hanno già la loro pagina Facebook. Comunque gli hai dato proprio un nome molto originale.