[Fratture] UTC 2:03

Non riesco a muovermi. Non mi muovo. Eppure sarebbe proprio il caso di andarmene da qui.

Paolo Polacchini

Non riesco a muovermi. Non mi muovo. Eppure sarebbe proprio il caso di andarmene da qui. Non ho molto da dire, o meglio, non mi viene fuori niente di preciso dalla bocca. D’altro canto, fino a pochi secondi fa, me ne stavo accucciato sotto le coperte e non mi ricordo nemmeno precisamente quando sono sprofondato nel sonno più incosciente. Ricordo che mi era sembrato più piacevole del solito il letto, quando ci siamo infilati sotto le lenzuola.

Dice che ci sono state due scosse mentre noi eravamo a bere allegramente in centro città. Dice che sono stati due colpi di terremoto proprio grossi. Un terremoto serio, mica le flatulenze insignificanti che capitano di quando in quando. Tra l’altro non mi ricordo nemmeno quando. Ma dai, sta esagerando. Lo sai che noi emiliani non siamo abituati e in quanto tali siamo facilmente suggestionabili. Però sì, capisco: dormire è difficile se ti trema il letto. E’ tremendamente seccante rovinarsi una notte di gustoso sonno per un falso allarme; uno come tutti gli altri falsi allarmi a scadenza più che quinquennale che ogni buon emiliano ricordi. Anche se, ripeto, non me ne ricordo nessuno in particolare. Poi la domenica ti si accartoccia sul divano perché non hai forze a sufficienza, ed era tutta una bufala, un tremito molle, una zolletta di terra flaccida girata male. Su, non facciamo sceneggiate napoletane.

Insomma, svègliati! Che io non riesco proprio a muovermi, ho un peso freddo addosso. E questo almeno l’ho capito. Per di più sentire il rantolo e le moine diventare urla e poi mescolarsi ai tonfi sordi di oggetti in caduta libera per tutta la casa non è proprio rassicurante. Ho capito anche che questa non è per nulla una situazione rassicurante. E’ deciso: taglio l’angolo appena risolvo questo problema da una tonnellata che ha preso il posto della coperta primaverile. Ti dirò la verità, m’è venuta anche una certa premura da quando mi sono reso conto che la testata del letto sta sbattendo forsennatamente contro il muro. Non sei tu che dondoli, vero? No, tu stai urlando a mezza voce, un po’ soffocata dallo stupore e molto di più dagli sforzi e dalle contorsioni.

Eccolo quindi. Ma guarda un po’ che buffo: il terremoto. Uno se lo immagina grandioso, terribile e fiero in tutta la sua apocalittica potenza. E invece ce lo dobbiamo immaginare perché qui dentro non c’è un filo di luce, nemmeno quella dei lampioni che di solito entra dallo spiraglio della finestra dopo essersi riflessa tre volte contro i muri del cortile. Perché tu sei claustrofobica e anche io me la godo un sacco questa luce riflessa a dire il vero.

Sta ridendo, giuro che sta ridendo. Quindi è una ripicca. Non credevo se la prendesse così male: l’ho sminuito poche ore fa e già si sta vendicando. Una vendetta caldissima, a bruciapelo. Bravo, mi dichiaro sconfitto, però adesso potrebbe smetterla di soffiarmi il suo rigurgito nelle orecchie e sparire da sotto il mio cuscino. Capisco anche l’armadio adesso: non ha nessun arto e ha trovato l’unica soluzione per abbracciarmi, da dietro, da sotto; gran brutto scherzo, s’è infilato a letto con noi. Ogni parte del mio corpo è un brivido torpido: questo è terrore. Grande come non è mai stato prima. Sono un animale e il terrore guida il mio istinto, conto meno di niente. Se l’armadio fosse stato anche solo cinque centimetri più alto non sarei nemmeno più cosciente. Ma sono cosciente, ho paura, sono sconfitto e voglio scappare.

Scappa, presto scappa. In questa stanza è cambiato tutto. Non lo vedo ma lo so, lo sento. Io non so come mi sto muovendo, non sto scegliendo le mie mosse, ma sto sgusciando. Ecco come fanno i gatti quando non si vogliono far acchiappare: trovano sempre la posizione che ti complica la presa, sono mitici. Penso che un po’ di quell’istinto ci deve essere rimasto dentro perché, a pensarci dopo, a mente fredda, siamo stati proprio dei gran contorsionisti. Non ti vedo, ma il tuo braccio è qui e la tua voce la sento. Scivola sui cuscini, i miei piedi sono già sul pavimento. Un pavimento che trema, i mobili che sbattono come tamburi, i vetri che cadono e lui che ringhia.

Il corridoio è dritto, io non credo di seguirne la linea perché sbatto contro il muro. Mi volto e c’è la tua ombra, nero su nero. Almeno, dovresti essere tu. Dovrei essere io a tirarti fuori ma sono davanti a te, non so cosa sia meglio ma le gambe vanno da sole. E sbattono. Sbattono contro oggetti che non capisco in posizioni che non avevo previsto, anche se “prevedere” non è il verbo giusto. C’è ancora lui che ci striscia sotto e sghignazza, butta a terra oggetti a caso per il solo gusto di crear scompiglio, come dire: corri, corri, tanto io ti seguo comodamente. Non ricordo di aver tolto le tre mandate alla porta, ma le ho tolte di sicuro perché a questo punto siamo già fuori. E lui, come prevedibile, non è rimasto dentro.

Una notte fresca e buia. Il suolo flette come il fondo di una teglia di latta, i muri fanno rumore. Ma dico, questo è assurdo: pareti che emettono suoni dal loro interno è una cosa difficile da immaginare, e ancora più da descrivere, ma tant’è. Lungo la strada qualche vetrina urla la resa definitiva mentre i lampeggianti degli antifurto, tutti impazziti fischiano da lontano. E lontane sono le voci. Fuori. Fuori. Via. Li vedo tutti, la via è dritta come un fuso per un chilometro e più e, uno dopo l’altro si fiondano fuori dai cancelletti da un lato e dall’altro, per inerzia continuano verso il centro della strada, si fermano e si riavvicinano al buco da dove sono usciti. Un teatrino delle ombre traballante che contiene piccole figure nere, scoordinate, scalze, in mutande. Come me. Come te. Eccoci tutti in fila ad osservare sopra le nostre teste quale punizione ci sia stata dedicata. Nessuna per ora. Il vicino! Chiamo il vicino con tutto il fiato che ho. Lui sta al primo piano, con sua moglie e due bambini piccoli. Le luci sono spente, non hanno sentito, o sono caduti, o gli è successo qualcosa. Perché io sono qui e loro non ci sono? Perché non è accesa la luce della scala? Chiamo e richiamo finchè non mi fanno male i polmoni. Nessuna luce, non si sono accorti di nulla. Urlo, solo domani mi renderò conto quanto: ho esagerato a tal punto da irritare tutta la gola, corde vocali comprese, procurandomi una afonia che per tre giorni mi ricorderà questi secondi di disperazione. Corro scalzo sulla ghiaia appuntita. Frega niente. Mi fiondo sul campanello e calco il bottone mille volte. Nessun suono, muto. Già: non c’è corrente, cretino.

La porta mi si apre di fianco. Tutti e quattro volano fuori come sparati da un cannone. Il vicino guarda per aria e impreca. Gli altri piangono e si infilano in macchina. Stanno bene, sembra. E come loro anche gli altri vicini, in lacrime, intontiti, infreddoliti ma illesi.

Non trema più, s’è fermato. Non dico niente. Ti abbraccio, respiro. Già, quasi mi ero dimenticato che bisogna respirare di tanto in tanto. Brividi caldi e lacrime, come se mi avessero strizzato per vedere cosa esce. Adesso sono le mie gambe che tremano. E ho freddo anche se sono rovente. E il piede mi fa male. E il torace mi fa molto male. Non sono riuscito a difenderti e mi sento come se fosse tutta colpa mia. Ma lo so bene che non ci posso fare nulla. Adesso stiamo vicini perché è l’ultima cosa che possiamo decidere da noi.

Foto di Francesco Sabatini

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