Premessa
Nei primi dieci giorni del novembre 2011 – sempre in meno lo ricordano – il differenziale di rendimento tra titoli italiani e tedeschi (che al termine dell’ultimo governo Prodi era a quota 24) sfiorava i 580 punti base e gli yield di Bot e Btp superavano o solleticavano le vette del 7%.
Colpa del Governo berlusconiano?
Sicuramente questa lettura era – ed è – semplificatoria.
Raramente gli andamenti finanziari possono correlarsi nitidamente a un unico fattore.
Ma è un dato di fatto che, per l’intera durata del 2011, con l’aumentare della frequenza e della portata degli scandali che travolgevano il governo, spread e rendimenti salivano.
Dinamiche di questo tipo si verificano spesso nel mondo finanziario; per una ragione molto semplice: gli scandali implicano instabilità politica e l’instabilità politica – soprattutto in un contesto di per sé assai fosco – implica incertezza sugli investimenti.
Ora, è bene ricordare un paio di altre cose.
A novembre 2011, già tre stati membri dell’Unione Europea si erano ritrovati costretti – nell’istante successivo al superamento della soglia critica dei 700 punti base di spread – a dichiarare default.
Sto parlando di Grecia, Portogallo e Irlanda.
Sento spesso proferire queste parole esoteriche: spread e default.
Ma spesso, quando vengono nominate – al bar, negli uffici, in piazza, in televisione – mi s’incolla addosso la sensazione che nonostante il bombardamento quotidiano di informazioni sulla crisi economica, in troppi ancora non abbiano capito esattamente di cosa si stia parlando.
Mi concentro soprattutto sul più tragico di questi termini: default.
Significa bancarotta.
Bancarotta, per uno stato, significa non potersi più presentare sui mercati, per un periodo di tempo indeterminato.
Che, ancor più meschinamente, si traduce in un governo che non può più presentarsi su alcuna piazza finanziaria per raggranellare i soldi che era solito chiedere in prestito per finanziare la propria spesa pubblica.
Privarsi di questo genere di finanziamenti in un momento di crisi profonda è un po’ come chiudere il rubinetto dell’acqua appena si entra in doccia.
Non poter più presentarsi sui mercati – in un sistema come quello italiano (europeo, occidentale) che si basa largamente sulla contrazione di debito pubblico – significa non disporre più della maggiore fonte di finanziamento per diverse questioni che non sono esattamente di poco conto.
Tipo le pensioni, gli stipendi statali, i fondi di mantenimento di scuole e ospedali.
Non è una situazione divertente.
Considerato che molti indici finanziari italiani, in quel novembre nero, stavano ripercorrendo passo passo l’andamento degli stessi indici degli stati già falliti, sarebbe stato alquanto ingenuo, per non dire criminale, da parte della nostra classe politica, pensare che il rischio bancarotta non fosse dietro l’angolo.
E con dietro l’angolo intendo: dietro l’angolo.
Quando si descrivono quei giorni con parole quali “emergenza”, “estrema gravità”, “orlo del baratro”, si dice il vero.
L’Italia era davvero a un passo dalla tragedia.
E quando si è a un passo dalla tragedia – a pochi giorni dalla tragedia – prendersi due mesi di tempo per organizzare una campagna elettorale non è un’ottima idea.
Un’ottima idea è invece concertare un consenso parlamentare per instaurare – rispettando alla lettera i codici costituzionali – un governo provvisorio di elevata credibilità internazionale.
E questa rimane una buona idea, al di là delle tasse che tale governo potrà imporre.
(Primo inciso: l’Italia si trovava in una situzione peggiore di quella in cui versava la Spagna, al momento delle elezioni: lo spread spagnolo era più basso e il debito pubblico pure. Senza contare che gli spagnoli, dopo essere legittimamente ricorsi alle urne, si sono ritrovati con il sistema bancario nazionale – bellamente ignorato durante la campagna elettorale – letteralmente al collasso).
Per tutte queste ragioni non riesco a trovare punti condivisibili con le critiche mosse dal collega e amico mumblaro Emiliano Rinaldi, nei confronti del PD, in questo ottimo articolo.
Non trovo verosimile sostenere che la scelta migliore (più responsabile?) per il Partito Democratico, in quella fase, fosse dare il via a una campagna elettorale.
Anche se questa, con ogni probabilità, avrebbe risolto per sempre il problema della presenza di Berlusconi nella disastrata scena politica nostrana.
(Secondo inciso: con quanto scritto, non intendo sostenere che l’operato del governo Monti sia stato impeccabile. Il debito pubblico è aumentato – conseguenza diretta degli aiuti che l’Italia ha versato alla Grecia e, in minor misura, a Irlanda e Portogallo – e le tasse pure. E con ogni probabilità a primavera sarà necessaria una nuova manovra di 12 – 15 miliardi. Incrocio le dita e mi auguro che larga parte di quell’ammontare venga raccolta liberando le risorse cristallizzate della nostra sclerotica economia – dalle rendite ad alcuni mercati monopolizzati da aziende a partecipazione statale – ma non posso che essere grato al Governo Dei Teknici per aver domato lo spread e averci evitato il collasso completo).
***
Per la prima volta da queste colonne non mi limiterò a difendere l’operato del Partito Democratico (cosa di per sé già abbastanza inedita); mi spingerò oltre: lo loderò.
Fino a qualche settimana fa il PD non ha sbagliato una mossa.
O meglio: ha cercato di non sbagliare una mossa, facendo il possibile per dimostrarsi (come doveroso) democratico, aperto, moderno, quasi – quasi… – guarito dall’antico male del conflitto interno continuo.
Ha organizzato splendide primarie per il leader di coalizione; chi ha vinto ha dimostrato di saper vincere e chi ha perso ha dimostrato di saper perdere.
Ha organizzato splendide primarie per i parlamentari, nel tentativo di mettere una pezza a questa indifendibile legge elettorale.
Queste consultazioni, in effetti, non sembrano aver selezionato ovunque il meglio tra i possibili candidati, e senza dubbio sono state messe in piedi con eccessiva premura.
Ma questi sono rischi e mancanze da tenere in conto, quando si tenta di essere realmente vicini all’elettorato; non me la sentirei di condannarle.
Ora però, la situazione si sta nuovamente (e tragicamente) profilando come la copia sbiadita di quella che avevamo davanti nel 2006.
Come scorgere l’ombra della fine, in dieci mosse:
1) si va alle elezioni con una legge elettorale perversa, scritta con l’unico intento di impedire al centro-sinistra di vincere;
2) Berlusconi viene dato per spacciato dalla sinistra tutta e da i maître à penser dei salotti buoni;
3) il centro-sinistra non si cura di tenerlo marcato stretto, controbattendo a ogni sua uscita populista;
4) con pazienza certosina, Berlusconi riesce a ricucire tutte le alleanze con gli ex compagni di partito e coalizione che nell’ultima fase di governo lo avevano pubblicamente ripudiato;
5) il centro-sinistra non si cura di tenerlo marcato stretto, controbattendo a ogni sua uscita populista;
6) si creano partiti e partitini alla sinistra del PD, che minacciano di sottrarre voti alla principale coalizione di centro-sinistra;
7) Berlusconi inizia un tour de force mediatico per martellare continuamente, da radio e TV, sul chiodo dell’abbassamento delle tasse e dell’eliminazione fisica dei komunisti;
8) il centro-sinistra non si cura di tenerlo marcato stretto, controbattendo a ogni sua uscita populista;
9) Berlusconi ripristina la propria immagine in modo definitivo grazie a uno scontro epico, messo in scena nella tana del nemico (nel 2006 era Confindustria, oggi è Servizio Pubblico);
10) il centro-sinistra non si cura di tenerlo marcato stretto e di controbattere a ogni sua menzogna, a ogni sua occupazione mediatica, a ogni sua mistificazione.
In tutto questo, i sondaggi, seppure ancora favorevoli al PD e a Monti in ogni scenario immaginabile, lentamente riprendono a premiare Berlusconi.
Come direbbe Antonio Conte: È iagghiacciandeh, lorsignori. Io ho pauraa. Aaa.
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