Quando ho iniziato l’università era ancora Novecento (la fine, sia chiaro). Allora usava che fotocopiavi il programma d’esami o tiravi giù la bibliografia su pezzetti di carta e poi cominciavi la ricerca. Non quella concettuale, tra percorsi di studio e letture incrociate. Quella dei libri intendo, un esercizio tutto fisico. Si partiva dalla biblioteca più familiare, la biblioteca del cuore, aprendo e chiudendo cassettini di mastondotici archivi per autore. Ogni tanto saltavano fuori schede bibliografiche scritte a mano in belle grafie, tutte ghirigori e svolazzi come quelle dei nonni. Un tuffo al cuore nostalgico, rétro, avvolto da un alone di inconfondibile romanticismo. Ma che traumatico risveglio nella prosaica realtà scoprire che lì l’agognato volume proprio non c’era e chissà dove si nascondeva, il signorino, magari fuori catalogo tanto per fare un po’ di più il prezioso e complicare ulteriormente le cose. La ricerca dei libri al tempo prevedeva lunghe passeggiate e un colpo di fortuna che interrompesse il pellegrinaggio.
Poi è arrivato lui, Opac Sbn (Online Public Access Catalogue; Servizio Bibliotecario Nazionale, che in realtà è una lei, per gli amici Sebìna), progettato e gestito dall’Iccu (Istituto centrale del catalogo unico). E al di là della barocca moltiplicazione degli acronimi, che di per sé ispira poco fiducia, è cambiato tutto e in meglio.
«Un catalogo che consente di accedere a 14 milioni di titoli con 64 milioni di localizzazioni, circa 50 milioni di ricerche bibliografiche e più di 35 milioni di pagine visitate». Che prevede servizi come la prenotazione, la richiesta di riproduzione del testo e il prestito interbibliotecario. Insomma un progetto che si prende cura del patrimonio bibliotecario italiano e soprattutto si preoccupa di farlo vivere nell’unico modo in cui sanno vivere i libri. Venendo a contatto con i propri lettori e non ammuffendo su scaffali dimenticati.
Talmente bello che minacciano di chiuderlo. L’emergenza pare rientrata perché i tagli inizialmente previsti ai finanziamenti dell’istituto che si occupa della gestione e della manutenzione del catalogo, pari al 31%, sarebbero stati ridotti al 14%. Ma rimane l’allerta perché qualsiasi revisione degli stanziamenti al ribasso costringerebbe il personale dell’Iccu, già sottodimensionato, a un’interruzione del servizio. Che è come dire che mentre il resto del mondo continua a stare nel nuovo millennio, da noi si torna a fare i clerici vagantes.
Ora, è chiaro che la cultura è una velleità sospetta in questo paese che non ne può più delle sue rovine, delle chiesacce, dei templi, dei teatri, che non sopporta più nemmeno se stesso. Ma c’è un limite a tutto, anche all’autolesionismo. Se chiude Sbn direi che l’abbiamo raggiunto. E allora rinunciamo del tutto alla cultura, non nominiamola più, smettiamo di coltivare l’idea di un possibile miglioramento, strappiamo dal vocabolario anche questa parola che in fondo di quell’altra è sinonimo. Non fanno per noi.
p.s. : per impedire la chiusura di Opac Sbn c’è l’ennesima petizione in corso. L’ho firmata nonostante il disincanto e nonostante tutto consiglio di farlo anche a voi.
Attenzione alla confusione! :) Sebina non è SBN! SBN è il Servizio Bibliotecario Nazionale, gestito dall’ICCU, oggetto delle discussioni di questi giorni. L’OPAC SBN è il catalogo, l’interfaccia pubblica, di tutto il patrimonio librario condiviso in SBN. OPAC è un termine generico internazionale che indica il catalogo online: tutti i cataloghi online sono “opac”, un termine che si usava molto per contrapporlo al catalogo cartaceo, ma che al giorno d’oggi andrebbe abbandonato (e noi bibliotecari, colpevolmente, continuiamo a usarlo). Sebina invece è solo uno dei tanti software usati dalle biblioteche per gestire il proprio opac (è usato molto in Emilia Romagna, che ne è l’ente finanziatore, ma anche da noi a Torino) ma non va confuso con il servizio SBN!