[Quattro] Grottesca

Ognuno di noi ha un lume votivo acceso nelle fisionomie di persone e ambienti che ha attraversato
[Claudia Ciardi]

La marina vecchia era proprio un’altra cosa. Ho fatto in tempo a incrociare i miei passi con lei un’ultima volta, non troppi anni fa, quando la terra smossa all’entrata della cittadina celava appena il taglio che già infettava tutte le sue vie e i radi, scheletrici campi davanti alla foce, dove di lì a poco si sarebbe spalancato l’orribile imbuto di un coagulo lunare.

Le antiche case dei pescatori dormivano ancora senza sogni, col capo oliato dalla grassa sciatteria che è il belletto di ogni stazione balneare, e stiravano i loro corpi appesantiti dentro soli gravidi, alti e bassi, poi di nuovo alti e bassi sulle onde, ingolfati nell’ombra di una rete soporosa di merletti liberty qua e là interrotti da aggettanti sculture geometriche, decaduti fasti del regime che fu.

Erano mesi in cui la vita mi aderiva alla pelle, indecifrabile come i vetri che ancora si reggevano sopra certe facciate davanti al mare. Scarni telai l’incorniciavano, nei cui petti svuotati erano racchiuse le bufere degli inverni e la giostra estiva dei villeggianti, con le sue molli passeggiate crepuscolari che sempre finivano nelle cupide valve di anonime camerette, dove anno dopo anno ricresceva la polpa appetitosa degli amori clandestini.

Tutto, ora, navigava leggero come frutta sotto spirito, sorpreso nell’ambiguo cielo di un’eclisse, e io me lo sentivo salire sul cuore questo torpore senza nome, simile a un ranno vischioso che sbatteva insonne sugli steccati della terra spurgata dai visceri della vecchia marina. Il rostro delle escavatrici s’impennava sulle dune spettinate, rassegnate ai loro lugubri invasori che squassavano e scortecciavano senza requie.

Assistevo in quei giorni alla definitiva profanazione di un luogo, anche se quel che maggiormente mi gettò nello sconforto fu l’osservare con chiarezza un più atroce sovvertimento, quello dei miei ricordi. Ma perché la mia espressione non suoni troppo scontata e perfino sciropposa a nature prevenute nei confronti di esperienze sensitive, va detto che la mia memoria aveva con quel posto un rapporto davvero irrituale. Non tanto era in ballo un legame elettivo e romantico con un periodo immacolato di me stessa, si trattava piuttosto di un cordone ombelicale di cui avevo scoperto l’esistenza molto più tardi nella mia vita, quando l’adolescenza era ormai conclusa.

Ognuno di noi ha un lume votivo acceso nelle fisionomie di persone e ambienti che ha attraversato ma nulla è il senso nostalgico e indefinito dell’infanzia, che a tratti ci capita di evocare, in confronto al ritrovamento certo del suo centro fisico. Quando questo accade ci si sente risolti nella spirale di un presentimento, coscienti di camminare dentro una rara specie di cosmica lontananza, egualmente distante dalla nostra origine e dal congedo, senza che questa riesca a fissarsi in un punto preciso, qualcosa di fluido e non circostanziato che scompagina continuamente i rituali con cui siamo soliti ordinare il passato.

I luoghi che più non credevamo essere materia delle nostre attenzioni talvolta ridiscendono in noi, accennando inaspettate fatalità. Allora si resta muti davanti a queste urne scoperchiate, non si va né avanti né indietro, in loro ritroviamo oggetti sepolti, accanto ai quali ci stendiamo per pochi attimi. Da questa incubazione, così rapida quanto inverosimile, consumata con tutti i sensi, si esce spossati.

Nei giorni in cui gli operai sarchiavano i bordi della pineta e formavano una severa processione larga l’intera bocca del paese, che in quasi due secoli si era schiusa per concedersi soltanto ai suoi discreti visitatori, si consumò quella che possiamo chiamare la mia seconda nascita.

Non so se la definizione sia corretta e se effettivamente è quel che avvenne, so solo che dopo molto tempo i passi mi riportarono lì, e la sensazione fu proprio quella di ritrovarsi avvolti dentro un panno lavato, mentre quei curvi grigi razziatori istigati dal capo cantiere s’infiltravano ovunque, col piglio di vecchie torturate dall’artrite che hanno pensieri cattivi.

Per la seconda volta apprendevo la lingua ammaliatrice e modesta di quel luogo ma era in corso un evento irripetibile che lo avrebbe per sempre cambiato, e ciò che in me riposava nelle sfocate culle della memoria era più che mai vicino a svanire. Proprio la consapevolezza della minaccia, provocò quella tardiva deflagrazione in cui il ricordo, ravvivato nel distacco, mi svelò il suono dei tanti alfabeti che da lì erano migrati per nutrire in me un tipo assolutamente selvatico di fantasia.

Ero di nuovo l’adolescente che avanzava per chilometri sulla sabbia, e finalmente erano chiari i primi tentativi della mia ribellione, di cui il bianco volto della marina si faceva beffe insieme alle sue rughe, una balia che sapeva di latte come un caldo riflesso su un piatto di sale. Ritrovavo i vialetti arroventati dal mezzogiorno, freschi e fatati nella sera, e le voci dei ragazzi, nascosti dalla leggerezza dell’età e dagli aromi della pineta che gettavano su tutto lo stordimento di un incantesimo. Vedevo i vecchi spogliatoi di legno della colonia ereditata da bianche suore che s’aggiravano sulla spiaggia veloci e sicure in cerca dei loro orfani, e le piccole case dei bagnanti come creste sbocciate sulle pietraie, in mezzo alla cupa distesa dei capperi, con le colorate trecce delle tende che mi lasciavano immaginare appena il regno di meravigliose cuoche.

Il riaffiorare improvviso di simili apparizioni mi sembrò allora il compimento di qualcosa, che per rivelarsi aveva bisogno del pretesto di una fine. Fra l’altro, va detto che l’attaccamento a certi paesaggi diviene talvolta più profondo e persino più struggente di quello tra persone.

Ma una riflessione di questo genere l’avrei fatta molto più avanti, quando altre circostanze, fabbricate semplicemente come su un tornio, avevano maturato in me il senso stesso dei legami. Quel che piuttosto mi apparve subito nella sua forma esatta, ed è stato determinante per molti miei successi o insuccessi – altri saranno a deciderlo – è che ci sono luoghi, non si sa il motivo, destinati a un fascino.

Provare a spiegarlo è lo stesso che diluire un’alchimia in un ordine logico che nulla potrebbe restituirci delle rivoluzioni grandi e piccole che hanno avuto per protagonisti i loro abitatori d’un giorno o di una vita.

Le pale meccaniche scavarono avelli dentro di me, umide buche dove sfinivano i resti di una mareggiata che ora cessava ora riprendeva forza nei miei pensieri. E tuttavia sentivo la catena allentarsi, cedere a una scioltezza che mi guidava verso altri approdi. L’insolita agonia di un tale prodigio, nato da una profanazione e da un saccheggio, mi riportò indietro alla voce martellante di una corda che sbatteva impazzita sull’asta dov’era inalberata una rossa bandiera, fiore sanguigno nel vento, monito a non spingersi oltre, che in quel periodo veniva come un lampo a fasciarmi le tempie. Il quadrato della terrazza, col collo stranamente chinato sopra il mare, somigliante a un dinosauro addormentato, aveva lì il suo centro, una grottesca dei quattro punti cardinali, asciutta meridiana senz’ombra che mi metteva sete e istigava a rovesciare il divieto; era necessario andare, percorrere le linee sulle quali si sarebbero modulati le date e i volti, impugnare il verde strascico della chiromante che a lungo avrebbe retto il segreto intento degli anni.

L’ultima cosa che nel rovesciamento di quel mondo e di molte delle mie percezioni mi riempì lo sguardo, malinconica come un carro di girovaghi, fu una villa pitturata di un’ocra rossiccia, con due morbide colonne alla porta d’entrata, da cui si fantasticava su un grazioso giardinetto interno, dove nelle giornate di burrasca, ascoltando il mare, si poteva pensare a un pericolo scampato. Una vecchia villa cadente occupata da una coppia già avanti con gli anni, due custodi tanto chiari e fragili da sembrare di salsedine.

Anche quell’immagine mi pareva un richiamo proveniente non si sa da quale atteso altrove, una reliquia osservata in controtempo. Ormai ce ne siamo andati, anni luce ci separano dai nodi di quei quattro punti misurati sul nostro cammino, quattro stelle tagliate nelle stagioni che venivano a iniziarci a un più audace viaggio.

Adesso sappiamo che laggiù ci si può sorreggere ancora a poche pietre che coraggiosamente tengono la loro posizione, capaci forse di narrare qualcosa con nostalgia, come un contrasto momentaneo di luce in mezzo alle nubi, quando spiove che è già sera, e subito i contorni si perdono in un nulla.

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