Make some fuckin’ noise – Lollapalooza 2013 (VOL. I)

Il Lollapalooza nacque nel 1991 da un’idea del cantante Perry Farrell, che decise di invitare altre 8 band “alternative” a partecipare al tour di addio dei suoi Jane’s Addiction.

Il Lollapalooza nacque nel 1991 da un’idea del cantante Perry Farrell, che decise di invitare altre 8 band “alternative” a partecipare al tour di addio dei suoi Jane’s Addiction. Dopo che questi ultimi si divisero, il festival venne ripetuto fino all’estate del 1997 come una serie di spettacoli itineranti che attraversava gli Stati Uniti per deliziare la cosiddetta Alternative nation con una sfilza di line-up che lette al giorno d’oggi fanno venire male al cuore.

Appoggiandosi al successo devastante del grunge (che all’epoca non aveva proprio nulla di alternativo), il festival divenne un’istituzione per tutta la musica che girava intorno all’idea molto vaga e molto soft di controcultura, senza limitarsi al rock, ma abbracciando con grande lungimiranza anche il rap e l’elettronica.

Nel 1998 Britney Spears pubblicò …Baby, one more time e la festa finì: la gallina dalle uova d’oro non era più buona nemmeno per il brodo e il festival venne cancellato a causa dei pochi biglietti venduti e della mancanza di headliner rispettabili. L’idea di Alternative nation era da buttare? Non del tutto e solo per il momento.

(Due poster delle edizioni del 1993 e del 1994 del Lolla. Vi conviene evitare di leggere le line-up.)

Nel 2005, infatti, Farrell riformulò la filosofia del festival, rendendolo ciò che è tuttora: tre giorni di concerti con più di un centinaio di artisti che si esibiscono su 7 palchi all’interno della spettacolare cornice del Grant Park di Chicago. Con grande intelligenza commerciale, Farrell capì che l’idea di Alternative nation non era morta, ma semplicemente mutata in Indie nation. Con il passare degli anni, lo spazio riservato alle chitarre elettriche si è ridotto drasticamente, mentre quello per l’elettronica è in continuo aumento (dal 2008 un palco è interamente dedicato ai dj set). Un’altra cosa è in aumento: il pubblico. Quest’anno è stato registrato il record di 300 000 partecipanti in 3 giorni. Io e il mio compare, Mr. Testa, eravamo tra loro.

Venerdì

Il primo giorno di Lolla è dominato da un clima cambogiano: il cielo è attraversato da nuvoloni neri che fanno pensare al peggio e quando esce il sole sembra di stare all’inferno. Ci sarà un’umidità dell’80% e i pratoni davanti ai palchi sono costellati da piccole paludi fangose. L’atmosfera è da The end of the world party e il pubblico è per la maggior parte costituito da adolescenti in calore che sembrano essere appena usciti dai provini di Spring Breakers: le fanciulle indossano corone di fiori di plastica, top da pornostar e short anni ’80 (vita altissima, fondo chiappe all’aria), che a quanto pare sono tornati di gran moda proprio quando pensavamo che il revival 80s stesse finendo. I ragazzi sono al 99% americani, il che significa che rispettano gli stereotipi: o sono obesi o sono palestrati. Per un quarto sono nerd “alternativi” con le t-shirt intelligenti (per esempio con Bruce Lee che fa il dj), per metà cazzoni nazionalisti (vedi Domenica) e per l’ultimo quarto rocker della vecchia guardia. L’età media è piuttosto bassa, probabilmente intorno ai 25 anni. Tre sono gli approcci alla questione fango: qualche esperto sfodera gli stivaloni di gomma da acqua alta, un buon numero di impavidi affrontano la melma in infradito e lasciano che la terra plasmi per loro gli stivali della natura, mentre la maggior parte della gente (compresi i nostri eroi) ha indossato le famose scarpe del cazzo da buttare a fine pratica.

I giovani americani sono adorabili. (Foto di Dave Mead)
I giovani americani sono adorabili. (Foto di Dave Mead)

 

Immaginate il vostro quartiere di nascita: durante la notte gli alieni hanno spazzato via gli edifici e li hanno sostituiti con campi da baseball, aiuole e boschetti. Hanno raddrizzato le strade e le hanno allargate (almeno 4 corsie). Ai loro margini hanno piazzato migliaia di cessi chimici e di bancarelle fumanti per centinaia e centinaia di metri. Infine hanno sistemato sullo sfondo la più bella composizione di grattacieli del mondo. Perfetto, adesso avete un’idea di Grant Park.

Un’immagine che può aiutare a focalizzare l’ambientazione del festival. (Foto di Ashley Garmon)
Un’immagine che può aiutare a focalizzare l’ambientazione del festival.(Foto di Ashley Garmon)

 

In linea di principio, sarebbe vietato introdurre nel parco cibo, droghe e alcun tipo di bevanda diversa dall’acqua. In pratica l’odore d’erba permea ogni platea, il braccialettino blu che ti consente di acquistare alcolici si ottiene esibendo qualsiasi pezzo di carta su cui sia stata scritta una data antecedente a 21 anni fa, ma le lattine di birra costano 8 $ cadauna, quindi sbronzarsi risulterebbe complesso anche per il più ricco degli sbevazzoni. Di fatto la situazione è fortemente sotto controllo, con gli sbirri che si godono una tranquilla vacanza nell’ignara piscina della gioventù.

Io e Mr. Testa entriamo (dopo una perquisizione leggerissima) nel parco alle 13. Commettiamo subito un grave errore, ordinando dalla bancarella di The Smoke Daddy un chicken burger messicano che picca più del batacchio di Lucifero, per non parlare delle patatine annesse. Il sole e l’umidità non ci perdonano. Io mi scolo subito quasi tutto il litro d’acqua che ho nello zaino, Mr. Testa invece non beve. Lui non beve mai.

Per rinfrescarci decidiamo di dirigerci verso il sud del parco, dove sullo stage principale sta finendo di esibirsi Emeli Sandé. Facciamo in tempo ad ascoltare solo il singolazzo “Next to me”, che non può deludere nessuno mai e in nessun tempo. Applausi. (Voto: 7 sulla fiducia)

Voltiamo le spalle e ci ritroviamo nel bel mezzo del rave organizzato da quelle brave ragazze delle Icona Pop. Il caldo, il peperoncino e la paprika mi stanno picchiando duro e sudo come un maiale. Mr. Testa non suda. Lui non suda mai. O meglio, suda solo quando ha paura.

Le Icona Pop spaccano con le kappa al posto delle c. Sono vestite con tubini a scaglie di plastica bianca o nera che le rendono veramente ridicole, ma la loro classe musicale è enorme. Sono le Spice del nuovo decennio. Il pubblico va in delirio a ogni ritornello e nemmeno noi possiamo esimerci. A un certo punto, però, noto del sudore sulla fronte di Mr. Testa, accompagnato dalla sua classica espressione di pericolo. Essa è causata dalle libellule grandi come elicotteri che sorvolano il pubblico con fare minaccioso. È la scusa perfetta per abbandonare la palude zuccherosa delle Icona Pop. (Voto: 8,5 meritato)

Le Icona Pop sono la Moda. (Foto di Matt Ellis)
Le Icona Pop sono la Moda. (Foto di Matt Ellis)

 

Ci spostiamo leggermente e finalmente inizia a piovere, ma solo per 5 minuti. Nel tragitto ci sorbiamo mezza canzone dei Timeflies, quanto basta per capire che costituiscono l’equivalente musicale del colera e per darsela a gambe. (Voto: 1 sulla fiducia)

Arrivati alla parte opposta del parco, troviamo sul palco un gruppo di nazisti dell’Illinois, che poi si rivelano essere gli svedesi Ghost B.C., un gruppo goth pieno di sorprese, a parte i vestiti da satanisti. Sebbene nel complesso risultino un po’ noiosi (il pubblico è più sconcertato che divertito), in una decina di minuti riescono a spaziare da un heavy metal piatto come una tavola a un’electro-dark-wave anni ‘80 piatta come una tavola. Il problema principale, forse, è nel cantante (che si fa chiamare “Papa Emeritus II”), la cui timbrica ricorda assai la flemma mestizia del cantante dei Katatonia. Insomma, da approfondire eventualmente a novembre e sicuramente di notte. (Voto: 6,5 per i vestiti da buffoni).

 

Papa Emeritus II dà la benedizione ai fedeli. (Foto di Dave Mead)
Papa Emeritus II dà la benedizione ai fedeli. (Foto di Dave Mead)

Vicino ai Ghost B.C. si stanno esibendo i Twenty One Pilots, ovvero una coppia di esagitati con il passamontagna che suonano quel genere moderno che sta a metà tra il pop iper melodico, il rap e le sfuriate elettroniche à la Steve Aoki. I ragazzi americani ne vanno pazzi, noi no, ma forse oggi l’Arte si nasconde sotto un passamontagna. (Voto: 4 per l’arroganza).

Per puro caso passiamo nelle vicinanze di un palco laterale e veniamo folgorati dalla classe cristallina del soul-pop leggermente tinto di elettronica di Jessie Ware, una cantante inglese che viene ingiustamente ignorata dalla quasi totalità dei partecipanti ma che regala una delle migliori performance del festival. Ascoltate il singolo Wildest moments per credere. Mr. Testa perde il controllo e dichiara il suo amore sconfinato alla cantante che non lo capisce a causa della pessima pronuncia. (Voto: 8,5 per la classe).

Al termine dell’esibizione, Mr. Testa ha la missione divina di comprare la tee di Jessie Ware; io ne approfitto per comprarne una di Steve Aoki (pronunciato /eioki/, mi raccomando), che sfonderà tutto in serata.

Ci facciamo una tregua sul prato-fango, per recuperare le forze prima del set dei Queens Of The Stone Age (QOTSA), che si preannuncia fiammeggiante. Nel mentre scorrono in sottofondo la Band of Horses e la Thievery Corporation. Senza infamia e senza lode, i primi sopravvivono onestamente con i vecchi pezzi (Voto: 6,5), mentre l’alternare i cantanti a ogni canzone non rende meno noiosi i secondi, sebbene il giudizio sia contaminato dal mio odio per il reggae e per tutto ciò che gli annusa il didietro (Voto: 5).

Alle 18,15 in punto, i QOTSA salgono sul palco: io e Mr. Testa siamo eccitati come ragazzine, ci scattiamo foto e ci uniamo a un gruppo di groupie attempate nell’urlo: “Josh, we luv u!!”. Anche Josh Homme appare un po’ attempato, ma sconfigge gli spiriti maligni con una camicia nera da torero che farebbe invidia a Zorro. Il miglior portafortuna, però, è il nuovo batterista che lo accompagna: alle sue spalle, in canottiera nera e afro cioccolata, troneggia infatti Jon Theodore, ex-membro dei Mars Volta e certamente uno dei migliori colpitori selvaggi che una band hard rock si possa assicurare ai giorni nostri. Homme e soci suonano 15 canzoni per un’ora e un quarto, abbrustolendo gli spettatori (un po’ troppo passivi, in realtà) con riff che sembrano fiamme ossidriche e non tralasciando nessun pezzo forte. Forse non avranno la rabbia dei tempi d’oro con Dave Grohl e Nick Olivieri alla sezione ritmica, ma la chimica della nuova formazione vince e convince. Jon Theodore non delude le aspettative, rivelandosi preciso e potente come una macchina da guerra. Quello che sorprende ancora una volta è il sound delle chitarre, che Homme inventò praticamente di sana pianta all’inizio degli anni ‘90 con i Kyuss e che a tutt’oggi è in grado di segnare la carne viva come un tizzone ardente. La chiusura è naturalmente la travolgente Song for the Dead, di cui ho registrato per voi in esclusiva l’introduzione al cardiopalma. (Voto: 9,5 e che te lo dico a fare.)

Io e Mr. Testa abbiamo bisogno di cibo e nel tempo di ingurgitare la solita schifezza spacca-fegato perdiamo il diritto a qualsiasi posto decente per assistere allo spettacolo di Trent Reznor e dei suoi amici stupratori che abitualmente si fanno chiamare Nine Inch Nails (NIN). Reznor è un’istituzione del festival, avendo partecipato anche alla prima edizione del Lolla nel 1991. Non si sa per quale motivo, i NIN hanno spento i megaschermi, ma nei giorni successivi avrò modo di constatare la massa totalmente sproporzionata che hanno raggiunto le braccia di Reznor, il quale assomiglia sempre più a uno scimmione psicopatico. Tuttavia, l’ottima musica e lo spettacolo di alto livello rappresentano l’unica cosa rimasta dell’originale Alternative nation. (Voto: 7 perché in realtà mi sfracellano le gonadi).

Sono finiti i tempi in cui i bulli della scuola facevano la cacca nell’astuccio del piccolo Trent. (Foto di Jack Edinger)
Sono finiti i tempi in cui i bulli della scuola facevano la cacca nell’astuccio del piccolo Trent. (Foto di Jack Edinger)

 

Dopo 45 minuti (proprio in corrispondenza di Closer) è però d’obbligo fare un  salto dall’altra parte della strada per assistere all’inizio dello spettacolo di Lana del Rey. Il posto è zeppo di ragazzine idolatranti la cantante milionaria, che si presenta sul palco in tenuta hippie d’ordinanza: vestito d’organza rosso e coroncina di margherite. Se ci fossero stati in giro dei cani sarebbero tutti impazziti per via degli ultrasuoni emessi dalle sue fan fuori controllo. Bastano due canzoni per capire che quello che dicono della del Rey è tutto vero: no, non intendo quello. No, nemmeno quello. Sì certo, è vero anche quello, ma ciò che intendevo è che non sa cantare. Ascoltarla fuori dallo studio di registrazione è un flagello. La pena che si prova per lei è comparabile solo all’incomprensione verso l’amore incondizionato che milioni di persone le hanno donato. Ma è molto dolce, non lo metto in dubbio. (Voto: 0) (No, va bene, facciamo 0,5 perché è dolcissima).

Quanto è dolce? (Foto di Will Rice)
Quanto è dolce? (Foto di Will Rice)

 

Visto che dall’altra parte Reznor continua a parlare degli sbagli che ha fatto e delle pulsioni malsane che gli attraversano il cervello, decidiamo di piantarla con le stronzate e di andare a sentire un vero idolo: Steve Aoki (/eioki/, mi raccomando). Si sta esibendo al Perry’s, un palco che impareremo ad adorare due giorni dopo. Ben prima di arrivarci, iniziamo a percepire le sciabolate sonore del figlio di un noto wrestler giapponese, che raramente si lascia incastrare dietro la console, preferendo fare l’uomo-pipistrello dopo aver premuto il tasto Play sul suo computer. I puristi disprezzano questo atteggiamento dell’eroe dell’electro-house, ma personalmente lo trovo un gesto di sincerità nei confronti del suo spiritualissimo pubblico: perché far finta di modificare canzoni già pronte da mesi? Piuttosto è meglio che si diverta come un matto con il popolo, gridando ogni 2 minuti: “Lollapalooza, make some fuckin’ noise!” Non potete immaginare l’esaltazione. “Everybody say: FUCK YEAH!!” “Everybody put your fuckin’ hands up, so I can take a crazy muthafuckin’ photo of all of you, and tomorrow I’ll post it on my fuckin’ facebook!!” (Voto: 10)

Steve è figlio di un wrestler giapponese. (Foto di Jack Edinger)
Steve è figlio di un wrestler giapponese. (Foto di Jack Edinger)

 

Prima che la giornata finisca decidiamo di onorare anche i The Killers, che stanno tentando di sovrastare il casino infernale di Aoki-san per il piacere delle poche persone educate rimaste allo show. Sebbene non li apprezzi particolarmente, i ragazzi di Las Vegas dimostrano di essere una band seria e onesta, sparando con gli ultimi 4 colpi 4 singoli-bomba, conditi da fuochi artificiali e autoincensazioni degne degli dei del rock. Bravi a tutti. (Voto: 6,5)

Rimpianti della giornata: Deap Valley, un duo di ragazze piacenti che suonano blues, da noi sconosciute all’epoca del festival. Dicono che fossero vestite bene. E ovviamente i New Order, che hanno suonato in contemporanea ai QOTSA, regalando tutti i loro classici immortali a una piccola folla di nostalgici.

[continua…]

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